Newsletter dal 5 al 15 dicembre 2025
Assistere da oltre due anni al genocidio del popolo palestinese è come osservare uno psicopatico serial killer che non smette di uccidere, con la polizia che non arriva mai.
Dal 10 ottobre 2025, data dell’entrata in vigore del cessate il fuoco siglato sotto l’egida di Donald Trump, la parola “tregua” è diventata una maschera burocratica calata su una macchina di morte che non si è mai fermata. È servita a neutralizzare le piazze di mezzo mondo, dove decine di milioni di persone da mesi protestavano contro il genocidio a Gaza. È servita ad anestetizzare e confondere l’opinione pubblica.
Da allora Israele ha violato il cessate il fuoco oltre 500 volte in 50 giorni, uccidendo almeno 357 palestinesi. Nel frattempo, il totale dei morti nella Striscia ha superato le 70.000 persone. Numeri al ribasso, nonostante Israele e i suoi sostenitori continuino a minimizzarli, liquidandoli come inattendibili perché forniti dal Ministero della Salute di Gaza, “controllato da Hamas”.
Anche in Cisgiordania la pulizia etnica prosegue a ritmi sostenuti. Lì i coloni armati agiscono nell’impunità, supportati da un esercito che prosegue senza sosta raid aggressivi e mortali in città, villaggi, campi profughi. Demolizioni, evacuazioni, decine di migliaia di palestinesi costretti a diventare profughi nella loro stessa terra: l’espansione territoriale e la violenza israeliana sono diventate routine, e l’intera Cisgiordania è ormai una riserva di caccia all’uomo.
Due esempi recenti chiariscono la brutalità quotidiana: due fratellini di 8 e 11 anni, Fadi e Goma Abu Ass, sono stati uccisi a Gaza da un drone per aver osato superare una linea immaginaria imposta da Israele mentre raccoglievano legna per il padre ferito; a Jenin, Al-Muntasir Abdullah e Youssef Asasa, due civili disarmati, sono stati assassinati a bruciapelo mentre erano in stato di resa.
Neppure gli stranieri presenti in Cisgiordania sono al sicuro: il 30 novembre scorso, a Ein al-Duyuk, vicino a Gerico, tre italiani e una canadese sono stati aggrediti nel sonno da una banda di coloni incappucciati, armati, che li hanno picchiati e derubati. Una violenza premeditata che in qualsiasi altro scenario avrebbe avuto ripercussioni diplomatiche immediate. E invece il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani, già memorabile per l’uscita “il diritto internazionale vale sino a un certo punto”, ha reagito come se si trattasse di una scazzottata tra adolescenti. Nessuna convocazione dell’ambasciatore israeliano, nessuna presa di posizione netta. Solo frasi molli, degne di un Don Abbondio stanco.
Come se non bastasse, questa settimana Netanyahu ha chiesto al presidente Herzog la “grazia preventiva”, una mossa senza precedenti che solleva seri interrogativi sulla “sola democrazia del Medio Oriente”, il cui governo ha trasformato la guerra in leva politica e lo Stato in strumento di protezione personale. Un uomo già colpito da un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità, sotto processo per corruzione, frode e abuso di potere, che invoca clemenza anticipata prima ancora del verdetto è qualcosa che nemmeno in un fantasy distopico si oserebbe immaginare. Ma la realtà, si sa, supera spesso l’immaginazione.
A pochi giorni di distanza, a Roma, sono comparse quattro scritte su un muro accanto alla Sinagoga di Monteverde e sulla targa dedicata al piccolo Stefano Taché, il bambino di due anni ucciso nell’attentato al Tempio nel 1982. In un attimo si è scatenato l’inferno: conferenze stampa, dichiarazioni furibonde della Comunità ebraica, del sindaco, della Regione, del Presidente della Repubblica Mattarella — che pure sui due fratellini palestinesi aveva taciuto. Nulla da eccepire: gli atti vandalici vanno condannati senza esitazioni. Ma è l’asimmetria che sconcerta. La sproporzione etica che si inserisce perfettamente nella logica della neolingua: la parola incisa sul muro diventa più grave di un bambino vaporizzato da un drone.
Quando il linguaggio annienta la realtà, tutto diventa possibile
Questo è il punto di non ritorno. Un mondo in cui quattro scritte indignano più dell’esecuzione di due bambini non è un mondo confuso: è un mondo perso, alla deriva, programmato per non vedere il naufragio. È un mondo in cui il linguaggio non descrive più la realtà: la annienta. E quando ciò accade, tutto diventa possibile — l’impunità, il rovesciamento dei significati, la repressione del dissenso, perfino la criminalizzazione di chi ancora si ostina a dire che due bambini morti valgono più di una vernice su un muro.
(Per chi volesse approfondire il tema del controllo dell’informazione e del monopolio del linguaggio, segnaliamo questo articolo).
Per questo siamo tutti chiamati a non mollare e non dimenticare. Ogni gesto, ogni passo che compiamo deve portare dentro di sé la consapevolezza che mentre noi respiriamo, liberi, a qualcuno — dall’altra parte del mare — l’aria viene negata, come la terra sotto i piedi. Perché se qui è iniziato l’Avvento, a Gaza prosegue l’annientamento, mentre a Betlemme, la città simbolo del Natale occidentale, la popolazione è assediata e allo stremo.
Ma in un mare di cattive notizie, quella buona è che abbiamo una marcia in più. Il calendario torna ad arricchirsi di appuntamenti:
Domenica 14 dicembre appuntamento a Graglia, per camminare verso Occhieppo Inferiore passando per Muzzano, tra stradine secondarie e sentieri (qui la pagina con info e iscrizioni).
Ogni passo in più è un atto di resistenza e memoria, un gesto di solidarietà e di impegno civico concreto per la pace. Non siate timidi: lanciatevi, proponete e moltiplicate le Local March sul nostro stivale.
E voi, fantastici e generosi sindaci dei paesi e delle comunità che abbiamo attraversato con le nostre Local March for Gaza, potete continuare a fare la differenza scegliendo, per esempio, di gemellarvi con i paesi Cisgiordania. Non è solo un gesto simbolico: è un’azione concreta che sancisce un riconoscimento, stabilisce legami, rende visibile la solidarietà. Se non sapete da dove cominciare, contattateci: vi aiuteremo.
Noi che camminiamo sappiamo quanto possa essere rivoluzionario mettere in connessione piedi, mente e cuore. Lo abbiamo visto. E siamo solo all’inizio. Con la forza tranquilla che ci è propria, dobbiamo far capire che — come ricorda Moni Ovadia in questo video — non ci facciamo più rappresentare da chi non riesce nemmeno a rappresentare se stesso. È la mobilitazione civica che fa la differenza. E tocca a ognuno di noi lottare per i diritti universali: ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.
Come fa un gruppo di cittadini a Milano che, dal 16 giugno, ha dato il via a un’azione quotidiana di protesta: ogni giorno dalle 18.30 alle 19.30 restano fermi in Piazza Duomo, con cartelli che ricordano ciò che accade in Palestina. Come noi, andranno avanti finché questo genocidio non si fermerà. Hanno iniziato in una dozzina, ora sono circa 80, a volte di più. Per la stampa e le televisioni non esistono; per noi sì, e sono un esempio straordinario di resistenza civica (video).
È tempo di far nostro un pensiero cruciale per la sopravvivenza dell’umanità: nessuno si salva da solo. Noi continuiamo a camminare e non ci fermeremo finché tutti non potranno camminare in pace, nella propria terra, senza barriere, senza occupazioni, senza sopraffazioni.
Finché la libertà non sarà reale per tutti.
Come sempre, invitiamo tutti a promuovere e organizzare nuove Local March for Gaza e eventi di restituzione nei paesi attraversati dai cammini, dove chiedere ai propri sindaci di gemellarsi con un villaggio in Cisgiordania.
CONTATTI: adesioni@localmarchforgaza.it
Indicazioni per organizzare una Local March for Gaza : https://www.localmarchforgaza.it/vademecum-per-aderire/
Per caricare una nuova Local March for Gaza sul calendario del sito invia un breve testo descrittivo, il programma con le tappe e un’immagine orizzontale a adesioni@localmarchforgaza.it

